Il filosofo greco Aristotele definisce l’uomo “animale sociale”, cioè incapace di realizzare il bene e di conseguire la felicità al di fuori della comunità e dell’unione con altri individui.
Chi fosse al di fuori di questa definizione, secondo Aristotele, l’essere poteva essere o spregevole, o più che umano, cioè un dio. Il filosofo ritiene la società un progressivo ampliamento dell’istinto associativo che spinge l’uomo ed una donna a mettersi insieme per formare una famiglia per poi unire più famiglie costituendo un villaggio e infine più villaggi tra loro per formare un’entità più grande, cioè una polis (città, Stato).
l’uomo un essere fondamentalmente “asociale”, il quale cerca l’associazione con altri individui per motivazioni utilitaristiche, cioè per trarne vantaggi e benefici personali. Per Hobbes la nascita della società è necessaria con il superamento del cosiddetto “stato di natura” (condizione umana quando l’individuo è abbandonato ai suoi istinti primitivi).
Infatti, nello stato di natura, non esistono norme, né valori, né criteri certi di condotta.
La lotta per la sopravvivenza è l’unico movente che guida le azioni degli individui, minacciando in questo modo l’esistenza di ognuno.
In questa situazione gli uomini sarebbero condannati a vivere nel continuo terrore della morte e l’approdo ad una nuova condizione, quella sociale, in cui la sottomissione cosciente di tutti alle norme, garantisce ad ognuno di condurre un’esistenza tranquilla e sicura.
Sia Aristotele sia Hobbes riconoscono dunque nella società la destinazione irrinunciabile dell’esperienza umana: o per istinto naturale o per drammatica necessità l’uomo non può vivere al di fuori di essa.
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