domenica 15 marzo 2020

Società come destinazione



La socialità si identifica con la spinta associativa che induce l’uomo, per tendenza spontanea o per altre necessità inevitabili, ad unirsi con i suoi simili.

Il filosofo greco Aristotele definisce l’uomo “animale sociale”, cioè incapace di realizzare il bene e di conseguire la felicità al di fuori della comunità e dell’unione con altri individui.
Chi fosse al di fuori di questa definizione, secondo Aristotele, l’essere poteva essere o spregevole, o più che umano, cioè un dio. Il filosofo ritiene la società un progressivo ampliamento dell’istinto associativo che spinge l’uomo ed una donna a mettersi insieme per formare una famiglia per poi unire più famiglie costituendo un villaggio e infine più villaggi tra loro per formare un’entità più grande, cioè una polis (città, Stato).
Il filosofo inglese Thomas Hobbes, discostandosi dall’interpretazione aristotelica, considera:


l’uomo un essere fondamentalmente “asociale”, il quale cerca l’associazione con altri individui per motivazioni utilitaristiche, cioè per trarne vantaggi e benefici personali. Per Hobbes la nascita della società è necessaria con il superamento del cosiddetto “stato di natura” (condizione umana quando l’individuo è abbandonato ai suoi istinti primitivi).
Infatti, nello stato di natura, non esistono norme, né valori, né criteri certi di condotta.
La lotta per la sopravvivenza è l’unico movente che guida le azioni degli individui, minacciando in questo modo l’esistenza di ognuno.
In questa situazione gli uomini sarebbero condannati a vivere nel continuo terrore della morte e l’approdo ad una nuova condizione, quella sociale, in cui la sottomissione cosciente di tutti alle norme, garantisce ad ognuno di condurre un’esistenza tranquilla e sicura.

Sia Aristotele sia Hobbes riconoscono dunque nella società la destinazione irrinunciabile dell’esperienza umana: o per istinto naturale o per drammatica necessità l’uomo non può vivere al di fuori di essa.

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