lunedì 20 aprile 2020

Le teorie del conflitto



Con l‘espressione teorie del conflitto si intende a prospettive sociologiche accomunante dalla tendenza a evidenziare la dimensione della conflittualità e della dimensione all’interno della società, lontane dalla concezione tendenzialmente ottimistica dei funzionalisti.
Del funzionalismo le teorie del conflitto condividono l’approccio “macrosociologico”, cioè la tendenza a privilegiare come oggetto della loro indagine “le grandi configurazioni sociali”, come ad esempio classi, intere società. Nella convinzione che lo studio di tali realtà sia fondante rispetto all’analisi “microsociologica”, cioè allo studio dei comportamenti e delle relazioni nei contesti sociali quotidiani. 

Le sociologie di ispirazione marxista

Louis Althusser (1918-1990) è stato un sociologo filo-marxiana francese impegnato nelle teorie del conflitto, approfondendo la nozione marxista di “ideologia”. 
Analizzava soprattutto gli apparati sociali di cui gli Stati si servivano per rafforzare e conservare le ideologie che sono funzionali ai rapporti di dominio esistenti. Secondo Althusser questi apparati sono le strutture come: la scuola, la chiesa, i media e le istituzioni culturali. Tali strutture le chiamò “Apparati Ideologici di Stato” (AIS). 
Queste affiancano le agenzie di repressione dello Stato (polizia, prigioni, tribunali) al fine di tramandare le norme e i valori su cui la società si regge e garantirne la sopravvivenza delle strutture socioeconomiche che ne sono il fondamento. 
Le varie teorie di Althusser ebbero una certa influenza negli anni ’70 stimolando altri ricercatori ad ampliare studi sui suoi temi, come ad esempio il rapporto tra scuola e conservazione delle disuguaglianze sociali. 

Uno di questi fu il sociologo francese Pierre Bourdieu, il quale sviluppa un’analisi estremamente critica nei confronti del sistema scolastico. Secondo lui quest’ultimo non tenderebbe a selezionare chi possiede il sapere, ma chi appartiene ad una determinata classe sociale, permettendo quindi solo ai ragazzi che vi appartengono di mettere realmente a profitto, una volta usciti dal percorso scolastico, il proprio titolo di studio.



Le sociologie critiche statunitensi

Negli anni ’50 gli Stati Uniti davano di sé all’opinione pubblica mondiale, l’immagine di un paese libero, democratico, in grado di offrire ad ognuno opportunità di crescita e di realizzazione. Convinti che la realtà fosse ben diversa molti studiosi si affidarono all’analisi sociologica per mettere in luce gli elementi di criticità. Uno di questi fu Robert Lynd (1892-1970), il quale è convinto attraverso i dati raccolti, che l‘economia determini tutti i settori dalla religione alla politica. Questo dato viene accertato dal fatto che gli stessi cittadini statunitensi tendono a criticare all'interno la loro società, che non funziona perché non è democratica. C'è una critica al tipo di organizzazione capitalistica che priva gli individui di ogni libertà e li manipola.

Nello stesso periodo si muove anche lo studioso David Riesman (1909-1002) il quale a suo giudizio si riferisce all'alienazione dell'individuo nella moderna società urbana.

Lo studioso segna il passaggio “dall'epoca della produzione a quella del consumo”, specialmente nella società statunitense, l’emergere dell'uomo “eterodiretto” (other-directed man) o massificato, per il quale il consenso del gruppo sociale di appartenenza è il valore assoluto e il conformismo diviene così l'unico modo di comportamento.

Un altro esponente che ebbe significato nella sociologia critica statunitense fu Charles Wright Mills (1916-1962), che offre un quadro disincantato della società statunitense, dominata dal potere dei grandi gruppi finanziari, militari e industriali, che dettano legge alla stessa politica.


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